Always be on (track)top

Dall’amante del fitness e del jogging, al trapper, dal britpopper agli invisibili del ghetto, passando per gli atleti, gli hooligans e i volti più in della musica e dell’alta moda. Soggetti sulla carta lontanissimi ma spesso uniti da un comun denominatore: il tracktop. Un capo iconico a dir poco, dalla storia intensissima, piena di cambi di traiettorie, percorsi tortuosi e verticali. Insomma, un evergreen dal fascino intramontabile, in grado di adattarsi nei decenni con passo deciso.

Riavvolgiamo il nastro al punto zero, negli anni ’60, in contemporanea con quella space-age che riverbera i suoi effetti non solo nell’etere, ma anche nella tecnologia di tutti i giorni. La combinazione di nylon sintetico getta le basi per la moderna tuta da ginnastica, che segna tra l’altro il primo importate traguardo di Adidas. È infatti la leggenda del football tedesco Franz Beckenbauer il testimonial d’eccellenza di questo nuovo capo. 

È il 1967, e i primi passi del tracksuit sono rilegati essenzialmente alla cultura sportiva, che in quegli anni vede un boom di amatori dell’outdoor: in prima battuta lo si indossa nel pre e nel post attività fisica, e servirà la spinta dell’alpinismo – con Patagonia in prima linea – per investire in tecnologia e modellare tessuti, funzionalità e modalità del capo. L’introduzione del caldo velluto elasticizzato ne migliora la fruibilità e comodità – non solo per sport, dicevamo, anche in casa è un must – tanto da passare dai marciapiedi e i parchi ai dancefloor dei club disco, dove comfort e colori sgargianti sono ormai obbligatori, a dir poco. E se stile e design la fanno sempre più da padrone, (date un’occhiata qui sotto a uno dei primi modelli Adidas, guardate che differenza rispetto ad oggi) il salto del tracktop nei giri che contano è il più ovvio degli approdi: leggendario, per dirne uno, quello indossato da Bruce Lee in Game Of Death.

Oltre al sempiterno aiuto delle icone sportive (Borg e McEnroe per essere scontati) sarà la mania del fitness sul tempo di Call On Me nel decennio di plastica e un ulteriore balzo tecnologico nel tessile (Gore-Tex e Sympatex) a dare ulteriore linfa al tracktop, che ora diventa un must-have di break dancers e dunque dei pionieri hip hop (Run-DMC sono il primo nome a venire in mente, così come la loro canzone My Adidas, per l’appunto), attraversando il gusto del Bronx più violento quanto della Harlem più spocchiosa: il passo è breve, ormai parliamo di un capo popular a tutti gli effetti.

Ciò che avviene nei noughties è null’altro che una coerente prosecuzione del tracciato: a dare ulteriore lustro e visibilità c’è il Dream Team di Jordan e soci a Barcellona ’92, claro, ma le attenzioni stavolta sono tutte per il Regno Unito: c‘è l’esplosione del Britpop e della cool britannia (dai, gli Oasis, i Blur, già sapete tutto), il football (gli stessi club ne fanno largo uso e con gran gusto) e, di filata, il leggendario movimento casual (di cui proveremo a parlarne in un’altra occasione, promesso), che dagli hooligans delle terrace trasla fluidamente nei rave dei capannoni abbandonati delle campagne inglesi, ballando sui ritmi dell’acid house, dell’hardcore continuum e delle euforie notturne dell’E. Restando in tema, non possiamo lasciarci dietro il fenomeno gabber, che della tuta acetata farà una vera e propria divisa d’ordinanza.

E se andando avanti col tempo i magnati dell’hip hop ne fanno un capo sempre più trendy consolidandone lo status, Britney che mette in piedi il suo matrimonio del 2004 con tute personalizzate non è certo il massimo dello chic, ok, ma di sicuro funge da ulteriore cartina da tornasole per decretare la presenza fissa del tracktop nel mainstream (ok, trash sarebbe più appropriato, pardon).  Ah, quasi dimenticavamo l’Obama in modalità relax fuori dall’ufficio presidenziale, così come l’entrata nell’immaginario del vestiario criminale (The Sopranos, The Departed), ovvero come commissionare omicidi e violenze nel maggior comfort possibile.

Tuttavia, nonostante gli esempi di cui sopra, la metà dei primi anni zero rappresenta per il tracksuit un momento di stasi, se non di declino, e sarà proprio mamma Adidas a contribuire a un nuovo rilancio, ponendo nuovamente il faro sullo stile degli anni ’70 e del rapporto seminale con la cultura hip hop. Ok senza annoiarvi troppo, andiamo a chiudere. Sono due i momenti davvero centrali per la rinascita: il lavoro di Gucci nella collezione del 2016 e l’ascesa della trap a livello planetario fa tutta la differenza del mondo, tanto in USA quando nel Bel Paese, vedi il re-branding di marchi come Fila ed Ellesse – allora spesso (anche a torto) relegati nell’immaginario come materiale di seconda mano – a seguire quel filone musicale e sociologico di coolness stradaiola, aumentando tanto la tiratura quanto il prezzo. In generale le linee seguite sono due: minimalismo e monocromaticità per gli aficianados e per i meno giovani, brillantini e mega loghi per le nuove generazioni, in realtà un richiamo lampante agli anni ’90. Dai, via con le foto.

Dan Abnormal